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Il silenzio come ultimo eteronimo

L’ultima frontiera e l’inizio

Nel 1990 Antoine Volodine pubblica per le Éditions de Minuit Lisbonne, dernière marge[1]. Si tratta di un libro cardine nell’opera dello scrittore francese, fino a quel momento segnata da romanzi e racconti assimilabili a una certa tradizione fantascientifica. È lo stesso Volodine ad affermare che Lisbonne è stato il testo da cui hanno avuto origine la teoria e la pratica della cosiddetta letteratura post-esotica.
La storia è questa: due amanti si ritrovano a Lisbona. Lei si chiama Ingrid Vogel ed è una terrorista braccata dalla polizia internazionale. L’avrebbero presa, se non fosse stato per un miracolo che le ha permesso di raggiungere il Portogallo. Lui è Kurt Wellenkind, sbirro. È stato lui a trarre in salvo Ingrid e a prepararle un piano di fuga, un piano di fuga disperato e definitivo, in cui Lisbona non è che una tappa, l’ultima frontiera o l’ultimo margine, appunto, del loro amore. Dalle prime pagine del romanzo apprendiamo che nel giro di qualche giorno Ingrid si imbarcherà su una nave olandese, «una nave in partenza per l’aldilà», e raggiungerà una qualche sperduta isola asiatica dove poter trascorrere il resto della sua esistenza nell’anonimato, lontana da tutto, dall’Europa, dalla lotta armata, dal pericolo e dall’amore. Nel corso degli ultimi giorni che i due trascorrono insieme, Ingrid rivela a Kurt la sua intenzione di approfittare dell’esilio per scrivere un romanzo, un’opera in codice, un testo impenetrabile e allo stesso tempo impossibile da fraintendere, intitolato Qualche particolare sull’animo dei falsari. Così Lisbonne si trasforma nel racconto di un addio e allo stesso tempo in una riflessione di natura letteraria che prende spunto da alcuni frammenti del libro di Ingrid, in cui la teoria poetica e la pratica della lotta si intrecciano per dare vita a una sorta di manuale di clandestinità. E la clandestinità, spesso, ha a che fare con i nomi.
Antoine Volodine è noto, oltre che per l’assoluta originalità della sua opera, per un uso complesso della pratica dell’eteronimia. La letteratura post-esotica, di cui Volodine è presunto fondatore, portavoce e teorico, è un sistema di forme letterarie e voci che comunicano tra di loro attraverso le opere, in uno sterminato universo concentrazionario senza tempo né confini in cui queste voci sono state relegate a causa della loro militanza politica e della loro ferocia letteraria. È questa comunicazione, questo scambio, a chiarire che i vari nomi con cui Volodine, negli anni, ha firmato le sue opere sono eteronimi e non semplici pseudonimi. L’eteronimo, a differenza dello pseudonimo, è quel nome che «non rappresenti lo stesso poeta con un altro nome, ma un poeta differente, concepito drammaticamente come un personaggio diverso dall’autore, e persino opposto all’indole di questi». A scrivere è Pessoa, in uno dei frammenti che compongono il fondamentale Teoria dell’eteronimia[2]. Non è un caso che Ingrid e Kurt si ritrovino a mettere in scena il loro addio a Lisbona, la città in cui, per vent’anni all’inizio del Novecento, gli eteronimi di Pessoa hanno dato vita, attraverso la moltiplicazione, o meglio, attraverso la scissione della personalità letteraria di Pessoa stesso, a una letteratura nuova, multiforme e scatenata. Così come non è casuale che all’interno di Lisbonne venga riportata una sezione del romanzo di Ingrid intitolata “Elise Dellwo e la pratica dell’eteronimia”, in cui si racconta del «perverso sistema di eteronimi» messo a punto dalla comune Elise Dellwo per «avvelenare il clima intellettuale» dell’epoca immaginaria di cui l’opera di Ingrid illustra le dinamiche, il cosiddetto Rinascimento.

I libri di Elise Dellwo tempestavano di anatemi, di oscenità, di processi sommari, di accuse malevole tutti gli ingranaggi della società: letterati, artisti, critici, comunità scientifiche, polizia, socialdemocrazia al potere; nessuno sfuggiva alla sua penna rabbiosa […].

La ragione dell’eteronimo, quindi, è il conflitto, con il mondo esterno e con le altre unità di un sistema di eteronimi, ma non solo. Il sistema post-esotico, come detto, è un universo carcerario e gli autori post-esotici sono accomunati da un’ideologia, quella di un «egualitarismo criminale, forsennato, irredimibile e vinto». Proprio in quanto sconfitta, l’ideologia di questi autori «rimanda a sua volta alla prigione», una prigione enorme, in cui decine di voci intrecciano le sorti di una letteratura. «Nel braccio di massima sicurezza è tradizione che agli eteronimi venga attribuita l’identità di un detenuto o di una detenuta recentemente assassinati o suicidatisi».
Queste ultime citazioni sono tratte dal testo di teoria post-esotica Le post-exotisme en dix leçons, leçon onze[3], del 1998. Se sulle copertine sia dell’edizione italiana che di quella francese l’opera viene attribuita al solo Antoine Volodine, nel frontespizio di entrambe le edizioni viene riportato per intero l’elenco degli autori di questo manuale della letteratura carceraria: Lutz Bassmann, Ellen Dawkes, Iakoub Khadjbakiro, Elli Kronauer, Erdogan Mayayo, Yasar Tarchalski, Antoine Volodine e Ingrid Vogel. Otto anni dopo Lisbonne, dunque, colei che possiamo accreditare come la capostipite[4] o il germe o il germoglio della letteratura post-esotica viene citata come una dei suoi massimi teorici.
All’interno del trattato Vogel firma la lezione numero 3, quella sul genere Shaggå. Dopodiché il suo nome ricompare nella lunga appendice delle opere post-esotiche posta alla fine del libro, ma mai per qualificarla come autrice: stando alla bibliografia, infatti, Ingrid Vogel sarebbe il titolo di un romanzo di Maria Soudaïeva del 1979. Lisbonne, dernière marge, invece, viene citato tra le opere scritte nel 1990 e attribuito a Vassilissa Lukaszczyk, che nel censimento lacunoso dei dissidenti defunti risulta morta nel 1987. Ovviamente di Qualche particolare sull’animo dei falsari non c’è traccia in bibliografia alcuna. 

Foto di Elena Chernysova

La parola estranea

Ma perché escogitare un sistema del genere? In un’intervista di qualche anno fa, Volodine spiegava[5]:

Qui ribadisco il sogno di Bassmann: sparire come autore per delegare agli altri, a delle ombre, il compito di recitare una parte davanti al pubblico. A ben guardare quel sogno non è solo alimentato dalla paura di apparire pubblicamente e dover rendere conto a coloro che leggono i testi, e che forse su quei testi s’interrogano, e li amano. Quel sogno è anche un modo di vivere la propria parola staccandosene, ascoltandola da lontano come se si trattasse di una parola amica ma estranea. Non è possibile, senza sparire (almeno un po’), senza fare un passo a lato, senza abbandonare i propri abiti di autore ufficiale, sentire la propria parola come una parola fraterna. Un passo a lato significa prendere della distanza dalla funzione di autorità, cercare di non riprodurre il pessimo teatrino degli autori ufficiali, sforzarsi di restare modesti e indifferenti a ciò che è esteriore al testo. È anche lasciare parlare gli autori vicini, gli eteronimi. Come portaparola del post-esotismo, amo l’idea che alcuni testi post-esotici non mi appartengano in quanto firmati da altri, come Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer o Infernus Iohannes. Far sparire delle marionette mediatiche è un esercizio d’equilibrio che raramente ha successo. Ma è uno dei miei obiettivi. Dei nostri obiettivi.

La grande utopia egualitaria ha in apparenza fallito. Restano la prigione e la letteratura, ma dal momento che nella maggior parte delle opere di Volodine le coordinate tradizionali risultano inefficaci – «la vittima è il carnefice, il passato è presente, il compimento dell’azione è il suo inizio, l’immobilità è movimento, l’autore è un personaggio, il sogno è realtà, il non-vivente è vivente, il silenzio è parola» – anche un’utopia in rovina può apparire come un’utopia appena nata. Come è possibile leggere testi in cui l’orizzonte è una cella, il tempo è tempo di morte, la prospettiva è un patibolo, ed essere investiti da così tanta speranza, da così folle coraggio, da un sentimento vitale tanto profondo? La risposta sta proprio nella moltitudine incalcolabile di voci, scritture, presenze che animano la letteratura post-esotica e nel sistema che adottano per comunicare tra di loro. Il post-esotismo è, a conti fatti, una letteratura finita, una letteratura sconfitta e al tempo stesso una letteratura inesauribile. Ogni volta che un’opera post-esotica viene composta, il nome del suo autore scompare e viene sostituito da un altro nome, in modo che in primis l’autore stesso possa leggere ciò che egli stesso ha scritto come se fosse il messaggio di un altro, un fratello o una sorella, un amante o un’amante, un traditore, un predecessore, o un autore del futuro che ha scelto di raccogliere la sua eredità.
Il gesto della scrittura assume il suo valore essenziale nel tempo in cui viene compiuto: gli autori e le autrici post-esotici scrivono per prolungare la propria esistenza sul ciglio della morte, per far tornare in vita attraverso i nomi lo spirito dei post-esotici scomparsi, cercare tra le proprie parole le parole altrui, unificare il familiare e l’estraneo in una forma dolorosa e viva. La celebre proposizione di Dorothy Parker, «Odio scrivere, ma amo aver scritto», viene finalmente capovolta e il paradosso di un eterno ergastolo collettivo si trasforma in una cospirazione dell’immaginazione. Così la scrittura diventa la voce impossibile dell’ultimo margine.
In Lisbonne, per quasi tutto il romanzo, Kurt tenta di dissuadere Ingrid Vogel dallo scrivere la sua opera in codice, perché sospetta che l’intenzione di Ingrid, in realtà, sia proprio quella di farsi decifrare e leggere dai boia che le danno la caccia, in modo che possano ricevere in piena faccia tutto il suo odio. Per un po’ Ingrid regge il gioco, si diverte a fargli credere che quel libro sarà, a conti fatti, l’equivalente di un’autobomba, ma alla fine, in un monologo di sussurri, gli confessa la verità, la verità che lui, così intelligente, avrebbe già dovuto aver raggiunto da tempo.

E tra l’altro, mastino ingrato, come osi pensare che scrivendo il libro mi rivolgerò ai tuoi compagni del Sicherheitsgruppe, ai tuoi esperti dell’ufficio cifra, a tutti quegli aguzzini dell’imperialismo, a quei cani rognosi, e come osi immaginare che avrò in mente il lettore placido, il lettore intelligente o severo, ben protetto dalle imposte chiuse di casa sua e dalla polizia?
E invece no, avrò un unico interlocutore, mio bel mastino, e cioè tu, Kurt, il mio amato mastino, penserò solo a te, caro mastino, dolcissimo mastino, Kurt: a te.

È proprio in questa confessione, e nelle ultime, meravigliose pagine di Lisbonne, che troviamo le ragioni per cui Qualche particolare sull’animo dei falsari non comparirà nelle bibliografie future, compilate in maniera più o meno meticolosa, della letteratura post-esotica, ed è in questo esito, in questo romanzo-mai-scritto che possiamo rintracciare il sentimento evocato da Volodine in riferimento al sogno di Bassmann. La parola letteraria si compie solo quando non ha un destinatario. Di conseguenza un sistema di eteronimi, il cui fine apparente è quello di progettare una letteratura fondata su un numero finito di elementi in comunicazione tra loro, esprime a ben guardare un desiderio di inesauribilità, un’azione dimostrativa compiuta in una città vuota o in una prigione sconfinata. Tra i romanzi di Volodine non ce n’è uno che raggiunga la disperazione di Lisbonne, non ce n’è uno, forse, che tradisca con altrettanta convinzione i propositi espressi, e questo proprio perché si fonda su un’opera che non verrà mai scritta, una lettera d’amore mascherata da romanzo di clandestinità e sovversione. Con Lisbonne Volodine inaugura il suo grandioso progetto e lo fa con un fallimento. O meglio, con una rinuncia.
Stando alla bibliografia parziale della letteratura post-esotica, come detto, Ingrid Vogel non scriverà mai nulla, ma il suo nome resterà, nonostante la repressione, la fuga, nonostante l’ultimo margine. La scelta di Vogel è una decisione d’amore. È come se dichiarasse di non poter scrivere il suo romanzo per Kurt perché scrivergli non le basta. Attraverso questa presa di coscienza, Vogel (Volodine) inaugura una letteratura, una letteratura che nasce da un’opera fantasma. Il sistema eteronimico del post-esotismo viene fondato, quindi, dal silenzio di uno dei suoi esponenti di spicco.
Non stupisce, quindi, a un certo punto del romanzo, imbattersi in una frase in grado di spiegare in che modo un sistema di eteronimi può riuscire a sopravvivere alla morte e alla repressione totalitaria della realtà e dell’io.

Uccidere l’ortonimo

Nella sezione del romanzo già citata e intitolata “Elise Dellwo e la pratica dell’eteronimia”, si fa riferimento alla convulsa e capillare attività della comune Dellwo che, attraverso il suo sistema di eteronimi, letteralmente punta a minare il sistema culturale e politico del Rinascimento immaginario. È comprensibile, dunque, in un universo come quello di Volodine, in cui la letteratura e la lotta hanno lo stesso obiettivo, che un’entità tanto pericolosa e “maligna” diventi oggetto di tentativi di repressione ed eliminazione. Così, a un certo punto, leggiamo, la comune Dellwo si volatilizza. Subito Ingrid Vogel ci tiene a chiarire che «“volatilizzazione” è davvero il termine che si usava nella società del Rinascimento quando la polizia apriva la pancia di qualcuno e ci ficcava dentro una granata». Un’esecuzione, quindi. Un’esecuzione in piena regola. Ma come è possibile giustiziare un sistema di eteronimi? La risposta è semplice: uccidere l’ortonimo. L’ortonimo, nella terminologia di Pessoa, è Pessoa, ovvero l’autore-origine di tutti gli eteronimi.
Antonio Tabucchi, nella prefazione a Una sola moltitudine[6], parla dei posteri e del loro sbigottimento nel constatare che per vent’anni in «un piccolo e semisconosciuto paese del ventesimo secolo […] quattro poeti, diversi [ben più di quattro, scopriremo N.d.A.] e perfino contrastanti per voce e temperamento, poetano contemporaneamente, polemizzano epistolarmente, discutono pubblicamente, si redigono a vicenda prefazioni amichevoli, finché, inspiegabilmente, tacciono tutti allo stesso tempo, scomparendo nel nulla». Morto uno morti tutti, quindi. Morto l’unico, si potrebbe dire, ma non sarebbe esatto, dal momento che in un sistema di eteronimia l’unico non esiste. È proprio il caso di Pessoa a metterci in guardia, nel momento in cui scopriamo che esistono numerose teorie che ipotizzano una questione molto semplice, ovvero che persino in un sistema di eteronimi all’apparenza chiaro come quello architettato dallo scrittore portoghese possa nascondere il suo inganno maggiore nell’identificazione dell’ortonimo. E se non fosse Fernando Pessoa la chiave di volta dell’intero sistema? E se invece fosse un altro il nome centrale? E se ci fosse un nome ulteriore ancora sconosciuto, una personalità che all’improvviso ha decretato la morte dell’ortonimo Pessoa e del sistema a esso collegato? E ancora, e qui la teoria più affascinante e labirintica: possiamo dire con certezza che l’ortonimo Fernando Pessoa e l’individuo anagrafico che di Fernando Pessoa porta il nome siano sovrapponibili, oppure sarebbe più corretto affermare che l’autore accreditato come Fernando Pessoa, scrittore, sia il primo eteronimo del sistema e non l’ortonimo da cui il sistema si ramifica? Può un sistema di eteronimi sopravvivere alla morte dell’ortonimo?
Di tutto ciò va tenuto conto, quando si parla di post-esotismo e della costante minaccia a cui gli scrittori e le scrittrici post-esotiche sono sottoposti. Quella di Volodine è, come detto, una letteratura clandestina. Sarebbe ingenuo supporre che i suoi protagonisti non abbiano pensato, dopo decenni di persecuzioni, di esecuzioni, di prigionia, a come usare i nomi per confondere la repressione. In Lisbonne, proprio quando Ingrid Vogel parla della volatilizzazione di Elise Dellwo, proprio quando apprendiamo dell’eliminazione fisica dell’ortonimo Dellwo e ci siamo ormai rassegnati alla scomparsa della comune, leggiamo: «E se Elise Dellwo (quella che la settimana scorsa è andata in fumo) non fosse l’anello centrale (l’ortonimo) di questa catena di cui, ammettiamolo, non sappiamo niente di niente? Che succederebbe? Che succede quando si elimina l’eteronimo sbagliato?».

Foto di Gordon Matta Clark

Due incisi

«[…] la paura provocata dai continui cambiamenti di identità a cui sei sottoposta, la sensazione di sbandamento di fronte all’identità che si sgretola, la paura provocata dall’annientamento, dietro di te, dei tuoi doppi, l’ossessione dei tuoi segreti che nessuno deve conoscere, l’ossessione delle costanti bugie che sei costretta a sostituire alla tua autobiografia, la paura della metamorfosi».
Antoine Volodine

«A forza di ricompormi mi sono distrutto. A forza di pensarmi, io ormai sono i miei pensieri, ma non io. Mi sono sondato e ho fatto cadere la sonda: vivo pensando se sono profondo o no, adesso senza nessuna altra sonda che lo sguardo che mi mostra, nitido e scuro nello specchio del pozzo profondo, il mio stesso volto che mi contempla mentre lo contemplo. […] La finzione mi accompagna come la mia ombra».
Fernando Pessoa

Eteronimia pubblica/eteronimia privata

Scrive con precisione Tabucchi che il sistema-Pessoa è stato tanto grande proprio perché è riuscito nell’intento di sconvolgere alle basi l’intero panorama letterario di un paese, lasciando persino dietro di sé parecchie lacune che hanno contribuito a farne «l’opera aperta per eccellenza». Allo stesso modo si può dire che il post-esotismo abbia raggiunto (stia raggiungendo) il proprio obiettivo – il proprio sacrificio, il proprio combattimento contro la morte – attraverso un uso dei nomi e dei generi talmente complesso da risultare potenzialmente inesauribile. L’eteronimia di Volodine non solo tira in ballo i martiri attribuendo loro opere non ancora scritte, e quindi facendoli rivivere o confutando le informazioni ufficiali che vogliono fare della loro morte un esempio, ma addirittura sguinzaglia nel territorio del conflitto vere e proprie cellule-fantasma. Il messaggio è chiaro: l’egualitarismo non può essere sconfitto, perché gli scrittori e le scrittrici post-esotici hanno accettato la repressione, l’hanno rielaborata e raccontata, e così facendo ne hanno fatto una costruzione letteraria al cui cospetto i repressori, gli aguzzini, i poliziotti, i boia, i giudici, potessero dubitare della loro stessa vittoria, della loro stessa versione dei fatti, del censimento dei giustiziati e dei prigionieri che loro stessi avevano compilato. In questo modo, anche se tutti i post-esotici dovessero essere incarcerati o uccisi, il post-esotismo continuerà.
Alla luce di tutto questo, sia nel caso di Pessoa che in quello di Volodine il sistema di eteronimi sembra configurato per imporsi all’esterno, in un contesto pubblico che assiste in fieri o si ritroverà in futuro a ricostruire le dinamiche di una letteratura aperta, manifesta, in fin dei conti filologicamente tracciabile. Ma è davvero solo questo? È davvero solo il desiderio di un individuo di essere una letteratura a parte che irrompe in una letteratura ufficiale e la mina, a volte arrivando al punto di negarla? Se così fosse, la pratica dell’eteronimia sarebbe né più né meno che una luminosa e valorosa messa in scena. Se così fosse, la precedente affermazione secondo cui la parola letteraria si compie solo quando non ha un destinatario verrebbe smentita, dal momento che un eteronimo non può che scrivere per alimentare il proprio sistema di riferimento o per sparigliare le carte all’esterno.
Nelle confessioni di Pessoa e in alcuni testi post-esotici a tratti sembra di imbattersi in riflessioni in grado di allargare la nostra prospettiva su ciò che davvero anima un sistema di eteronimi. Voci interiori. Rapporti con la realtà e con la finzione. Ci sono voci interiori talmente insistenti e dissonanti che finiscono per scoprire di poter dire «io», per staccarsi dall’individuo da cui sono state generate e assumere connotati, stile e biografia propri. E da quelle voci ne nascono altre. Non possiamo sapere davvero se il legame tra queste voci sia destinato a resistere, anche fosse in maniera così flebile da non poter essere percepita, oppure se esistano voci che da un sistema di eteronimi siano in grado di staccarsi del tutto, dando origine a ulteriori sistemi o a individualità senza memoria della propria origine.
A venirci in aiuto in questo incredibile paradosso è il primo capitolo di Le post-exotisme en dix leçons, leçon onze, in cui viene descritta la prigionia di Lutz Bassmann, l’ultimo scrittore post-esotico rimasto. Di lui, della sua mente, della sua letteratura («della nostra letteratura») non resta che una parvenza spettrale, dalla quale tuttavia continuano a sbocciare parole, sussurri e sogni.

E adesso, quella lotta era affidata alle sole labbra di Bassmann. Si ritrovava appesa a un soffio. Dato che trent’anni di carcere avevano finito per spegnere il cervello di Bassmann e farne a brandelli le doti creative, i suoi ultimi mormorii non obbedivano più a logiche pionieristiche, combattive, imbevute di felicità onirica e di entusiasmo, in assenza delle quali il progetto post-esotico non avrebbe prodotto più di due o tre libri. Durante l’agonia, Lutz Bassmann desiderava unicamente rimestare le braci che gli erano state affidate e non essere risucchiato troppo in fretta – ed esse con lui – dal nulla.

A chi, a cosa si rivolge Bassmann dalla sua cella sepolta nelle profondità di un carcere labirintico? A nessuno, o meglio al nulla stesso, e così facendo, con le ultime forze rinnova il sistema e lo riconfigura come una sorgente inesauribile che gli sgorga dalla mente. Per questo la descrizione della sua condizione viene posta in testa al trattato sul post-esotismo e non alla fine. Dagli ultimi filamenti della lucidità di un pazzo tutto si rinnova; negli abissi in cui si lancia a capofitto la sua follia tutto avviene ancora. Così possiamo ripercorrere la storia, le ragioni e le forme post-esotiche e rifondarle dentro di noi, apprendendone le pratiche come un codice antico. Tutto inizia con l’immagine di un essere umano ridotto all’ostinata e mormorante ombra di se stesso. Per chi racconta l’ultimo scrittore post-esotico? Per chi, prima di morire, si ostina a ridare vita a un sistema di eteronimi in grado di sorreggerlo e di apparirgli in sogno[7]? Perché nel momento in cui morirà, la sua morte sarà l’equivalente di un passaporto falso bruciato? Perché una pratica dell’eteronimia, alla fine, ci appare come una forma estrema di salvezza, di disperazione?
La risposta a queste domande è una breve frase nascosta tra le pagine.
«La prima persona singolare serve ad accompagnare l’altrui voce».


[1] Le citazioni presenti in questo testo sono tratte dall’edizione italiana Lisbona ultima frontiera, Edizioni Clichy (2017), traduzione di Federica Di Lella.

[2] Teoria dell’eteronimia, di Fernando Pessoa, Quodlibet (2020), a cura di Vincenzo Russo.

[3] Le citazioni presenti in questo testo sono tratte dall’edizione italiana Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, 66thand2nd (2017), traduzione di Anna D’Elia.

[4] Possiamo considerare Vogel capostipite del post-esotismo se consideriamo Lisbonne come punto di svolta nell’opera di Volodine. Se volessimo attenerci, invece, alla storiografia letteraria interna al post-esotismo dovremmo prendere come primo estremo Angeli minori, attribuito a Maria Clementi e datato 1977 (un romanzo dal titolo Angeli minori è stato pubblicato a nome Antoine Volodine nel 1999).

[5] https://www.iltascabile.com/linguaggi/intervista-antoine-volodine/

[6] Una sola moltitudine vol. I, Adelphi (1979), a cura di Antonio Tabucchi.

[7] «Il Bardo Thodol è un testo post-esotico, destinato unicamente agli ospiti del braccio di massima sicurezza, e trasmesso di prigioniero in prigioniero, in un’atmosfera di amore, clandestinità e paura…[…] Adesso, solamente Lutz Bassmann era in grado di proferirlo, lo sussurrava di fronte alle nostre fotografie, mentre l’agonia gli saliva dentro come una marea».

Immagine di copertina: foto di © Elena Chernyshova. 

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